Tim Buckley (1970) Starsailor
Artist: Tim Buckley
Title: Starsailor
Label: Enigma Retro – 7 73505-2, Straight – 7 73505-2
Format: CD, Album, Reissue
Country: US
Released: 1989
Genre: Folk, World, & Country, Jazz, Rock
Style: Folk Rock, Psychedelic Rock
Songs:
1 Come Here Woman
2 I Woke Up
3 Monterey
4 Moulin Rouge
5 Song To The Siren
6 Jungle Fire
7 Starsailor
8 The Healing Festival
9 Down By The Borderline
Credits:
Artwork By [Art Direction], Photography – Ed Thrasher
Artwork By [Cd Repackaging] – L. J. Moche
Bass [String, Electric] – John Balkin
Electric Guitar, Electric Piano, Organ [Pipe] – Lee Underwood
Engineer – Stan Agol
Flute [Alto], Saxophone [Tenor] – Bunk Gardner
Guitar [12-string], Vocals – Tim Buckley
Percussion [Tympani], Performer [Traps] – Maury Baker
Producer [Exective] – Herb Cohen
Producer, Written-By – Tim Buckley
Remastered By [Digital] – Bill Inglot, Ken Perry
Trumpet, Flugelhorn – Buzz Gardner
Written-By – John Balkin (tracks: 7), Larry Beckett (tracks: 2 to 4, 7)
Notes:
A reissue of the 1970 album.
Digital Remastering at K-Disc.
(P)(C)1989 Straight Records.
Printed in Canada.
Produced under license from Warner Brothers Records, Inc.
"Sto muovendo oltre e probabilmente sarà molto, molto più in là di quel che la gente si aspetta. Ma so dove sto andando, vedo la strada". Con queste parole profetiche, estrapolate da un'intervista, Tim Buckley si appresta a compiere il viaggio musicale più affascinante e pericoloso che abbia mai intrapreso. Classe '47, dal volto angelico e riccioluto, egli è da qualche tempo tra i più dotati menestrelli del panorama americano, titolare di una manciata di lavori sospesi tra folk, jazz e psichedelia. Sfortunatamente i suoi album (Fred Neil, Tim Hardin, Miles Davis i numi tutelari) non scuotono le classifiche, relegando il giovane al rango di nome di culto, nonostante gli sforzi pubblicitari.
1970: lo scenario muta drasticamente. Ormai non importa più nulla dei fallimenti, dei possibili tonfi commerciali: c'è bisogno di andare oltre, rompere tutte le barriere della forma canzone ed esplorare una dimensione veramente sconosciuta.
Già con l'album precedente, "Lorca", il cantautore californiano aveva dato un assaggio di quello straniante, nudo pasto sonoro: brani scarnificati fino all'osso, spettrali e drammatici come in un incubo. La gran voce salmodiante copriva molta parte del tessuto strumentale, affidato all'organo a canne e alla chitarra elettrica, con saltuari ricordi acustici a corredo.
"Starsailor", terzo album nell'arco di un anno, faceva sembrare quelle sinistre litanie alla stregua di innocue folk-song.
Buckley registra il suo capolavoro in poche session (10-21 settembre 1970) con una band tutta nuova. Herb Cohen, suo manager e direttore dell'etichetta Straight (fondata con Frank Zappa) ha deciso di dargli ancora fiducia, nonostante le scarsissime soddisfazioni di classifica. Tim ritrova così il vecchio amico/paroliere Larry Beckett, accanto a lui fin dagli esordi, ma poi allontanato. Conferma la presenza di Lee Underwood, altro grande comprimario, alla chitarra elettrica, e John Balkin al contrabbasso. La perdita dolorosa dei compagni di strada Carter C.C. Collins (percussioni) e David Friedman (vibrafono) è bilanciata dall'entrata di Maury Baker (batteria, timpani) e dei fratelli "Buzz" e "Bunk" Gardner (rispettivamente tromba e sax), fiatasti di zappiana militanza.
Con poche ma chiarissime idee ben salde in mente, l'inedita compagine di musicisti si ritrova in studio. Tim si affida, come sempre, all'istinto e non dà alcuna indicazione scritta riguardo ad arrangiamenti o possibili assoli. I ragazzi dovranno limitarsi ad ascoltare le indicazioni del bandleader: improvvisare su un ostinato chitarristico, ricamare sonorità intorno a un volo di voce. Nasce così "Come Here Woman", il primo brano: accordi reiterati di chitarra elettrica seguiti dai virtuosismi del basso. La batteria irrompe e scuote l'ambiente, preparando l'ingresso di Buckley, che recita una prima strofa con teatrale istrionismo. Le vibrazioni nell'aria sono inquiete, la marea continua a cambiare forma, infrangendosi sugli scogli. Quando un abbozzo di melodia sembra sincronizzarsi tra chitarra e ritmica, ecco che la voce intraprende una serie di virtuosismi sperimentali, rallentando e velocizzando il suono delle parole, stupendo con acuti impossibili.
Per chi ancora non l'avesse capito, Tim Buckley dimostra al mondo di essere il più grande cantante del pianeta, capace di una estensione e una capacità di interpretazione assolutamente fuori dal comune. Così anche "I Woke Up" procede nella medesima ferrovia senza binari. La chitarra arpeggiata simula il lamento delle balene arenate sulla spiaggia, la tromba e la voce una lenta, sospesa malinconia. Tim morde e scompare, ruggisce poi fugge via. "Monterey" è soltanto una lunga, interminabile figurazione di elettrica, con scoppiettante basso & batteria al seguito. La voce simula grugniti e strilli repentini, pare di essere nella giungla. Le visioni evocate provocano inquietudine, nervosismo, tensione. Non è rock, né folk, né tantomeno pop. Buckley in questo momento è più attratto dal free-jazz di Albert Ayler, Coleman e Coltrane, dalla classica di alcuni coraggiosi come Pierre Buolez, Messiaen e Pendereckji. Un'ispirazione evidente è poi rintracciabile nel lavoro di Luciano Berio con la cantante Kathy Barberian: esplorazioni sulla vocalità e sui rapporti tra suono e parola, timbro e movimento, semantica e psicologia della musica.
Un sospiro di sollievo momentaneo è offerto dalla filastrocca naif di "Moulin Rouge", compiuta stavolta come una canzone standard. La tromba con sordina saltella in territori da music-hall, vagamente circensi o cabarettistici. Questo brano è tuttavia inserito da Buckley in qualità di riempitivo, quando è chiaro che il disco non è lungo abbastanza e le session sono terminate. Discorso differente per la successiva "Song To The Siren", scritta da Larry Beckett più di tre anni prima e poi scartata: all'originale ballata folk acustica viene rallentato il tempo e cambiato l'arrangiamento. Tim rimaneggia un po' il testo e ce la consegna profondamente diversa: la placida, inoffensiva andatura è tramutata in pathos elettrico, cori glaciali e interpretazione vocale più che mai sofferta e spettrale. Ne esce il capolavoro dell'album, una delle misconosciute perle nascoste del canzoniere americano.
I minuti scorrono, ma la cornice non cambia né vuole offrire appigli all'ascoltatore: basta approcciare "Jungle Fire", arabesco poetico diviso in due parti, una declamatoria e sospesa, l'altra spigolosa e movimentata dai consueti ostinati di elettrica. Oppure la controversa title-track, summa di tutta la sperimentazione d'avanguardia: costruita a tavolino da Tim e John Balkin da una poesia di Beckett, "Starsailor" è un temerario esercizio per sola voce. Sedici parti vocali sovraincise cambiando la velocità dei nastri: una sinfonia in cui l'unico strumento evoca spiriti ancestrali che sembrano possederlo. Un oceano di grida, sussurri, lamenti, gemiti. La materia è asciugata al massimo e si rivela in tutta la sua ostica bellezza. La nave stellare del marinaio Buckley approda finalmente a quell'agognato punto di non ritorno, lambisce per un attimo l'ignoto, osa, brucia, esplode. E sopravvive.
Con "The Healing Festival" si torna sulla terra cercando di dare un seguito strumentale a quel delirio, creando nuovo caos.
Non serve a nulla: lo zenith è stato toccato. Neppure il pur bellissimo incipit di tromba della conclusiva "Down By The Borderline" è utile ad approfondire ulteriormente il discorso. Il volo di Icaro è concluso: il sole ha bruciato le ali di Tim.
"Starsailor" esce nel novembre '70 e ovviamente non riscuote alcun successo. Si tratta dell'album più complicato e sconvolgente della storia rock: precursore inconsapevole di certa new wave più "eterea" (4AD) che negli anni Ottanta non mancò di pagare pegno. All'epoca molti critici scrivono recensioni entusiaste (celebri le cinque stelle dal jazz magazine "Down Beat"), ma tutto ciò non serve a risollevare le quotazioni di Buckley.
La provocazione messa in scena dal ventitreenne è raccolta da pochissimi coraggiosi. I vecchi estimatori dei suoi madrigali folk inorridiscono di fronte a quell'orgia: chi amava brani come "Once I Was" e "Phantasmagoria In Two" stenta a ritrovare l'angelico autore in questo marinaio delle stelle.
Buckley dal canto suo non può che tornare ai margini della scena, frustrato e pieno di malcelato livore verso il music business.
Non più giovane promessa, egli si ritrova a battere locali di terz'ordine, festival in cui il suo nome un tempo glorioso è recluso ai margini del cartellone. L'orgoglio e la testardaggine alla fine cedono al compromesso: tre album di mediocre folk-pop, arrangiato da sessionmen senza talento. La poesia di ieri rimpiazzata da squallidi testi impregnati di violenza o erotismo.
Un pensiero lo fa anche al mondo del cinema: la lunga lista di sceneggiature accantonate, adattamenti musicali naufragati e collaborazioni sfumate, però, parla da sola. Tutto il sostegno e l'amore di una nuova compagna non bastano. Tim Buckley non crede più nella musica, ha smesso di ambire a obiettivi importanti. Cerca rifugio per l'ultima volta nella droga e trova la morte per una combinazione di eroina (e quindi morfina nel sistema cardiocircolatorio) e alcol. E' il 29 giugno 1975: ha 28 anni.
Il suo viaggio si dissolve nel silenzio eterno dei pianeti.
Recensione di Ariel Bertoldo
Tim Buckley (1970) Starsailor
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