martedì 9 giugno 2015

Labradford (1996) Labradford


Artist: Labradford
Title: Labradford
Label: KrankyKRANK 013
Format: CD, Album
Country: US
Released: 1996
Genre: Electronic
Style: Minimal, Ambient

Songs:
1 Phantom Channel Crossing
2 Midrange
3 Pico
4 The Cipher
5 Lake Speed
6 Scenic Recovery
7 Battered

Immaginate un paesaggio desolato, abitato da fantasmi che si aggirano derelitti. Immaginate di vedere attorno a voi solo cenere e metallo, frammenti senz'anima di un'esplosione remota, ma soprattutto dimenticatevi i colori e pensate in bianco e nero, contrasto ideale per rappresentare l'alienazione. Bene, a questo punto avrete davanti a voi l'immagine di ciò che questo disco rappresenta in musica.

I Labradford, come tutti gli artisti di grande levatura, hanno metabolizzato generi apparentemente antitetici tra loro, in questo caso la psichedelia, la musica industriale e quella ambientale, attraverso l'umore del proprio tempo, ottenendo qualcosa di nuovo e inaspettato. I suoni industriali della storica scuola inglese di fine anni 70, cacofonici e martellanti, qui implodono inesorabilmente, svuotati della loro forza d'impatto, collassando in un rumore lontano e indefinibile. Il ritmo meccanico scompare, agonizzando sotto forma di flebili e ovattati brusii metallici. Da questo punto di vista i Labradford fotografano alla perfezione il nostro tempo. Non più un nemico da combattere, un riferimento, una linea di condotta, che seppur estrema rappresentava una "rottura" "contro" qualcosa, una rivolta "verso" un obiettivo. No, adesso quei punti di riferimento si sono inesorabilmente persi, e quel movimento oggi è assolutamente inattuale.

La new wave dei Throbbing Gristle o dei Cabaret Voltaire si era allarmata per l'avvento della civiltà industriale e ne esprimeva la rivolta estremizzando il suo malessere, "riportandolo" in musica, attraverso un estenuante stordimento, provocando fastidio, inquietudine. Oggi ci siamo "assuefatti" a tutto ciò, ma soprattutto si è "superato" tutto ciò. L'industria delle ciminiere, dei mostri meccanici, si è trasformata in microchip quasi invisibili, e per questo più pericolosi perché subliminali, esattamente come la musica dei Labradford, che è industrial non sembrandolo affatto: i maniaci delle etichette la catalogherebbero come "post-industrial".
Gli elementi ambientali che si incontrano nel disco servono proprio ad anestetizzare l'ascoltatore, essendo l'ambient il genere della sub-coscienza per antonomasia, nato per non essere ascoltato, ma "recepito". La psichedelia è invece un elemento minore, ma ugualmente importante per la sua caratteristica allucinogena. L'intento d'altra parte è dichiarato già dalla bellissima copertina, dove quei pilastri di metallo, forse un nastro trasportatore, risultano sfocati, come l'immagine onirica di un ricordo lontano sul punto di svanire per far posto alla veglia.

E sono infatti degli anemici rumori d'acciaio ad aprire il disco, introducendo "Phantom Channel Crossing". Ciottoli e catene che si trascinano lentamente come trasportati da un vento cosmico, emesso da una cupa elettronica analogica. Sinistri cigolii di lamiere riecheggiano nell'aria, creando un clima snervante, come d'attesa di una tragedia imminente, ideale colonna sonora per un campo di concentramento.
"Midrange", invece, si distende su territori armonici decisamente più usuali, ma soprattutto fa posto alla melodia e al canto, del tutto assenti nell'incubo precedente. Il pezzo si apre con dei liquidi rintocchi di chitarra, di chiara matrice psichedelica, sui quali dopo pochi secondi si distende un languido violino, dalla voce simile a quella del "canto solista" dei Dirty Three. Ecco poi che compare la voce, una voce effettata e caldissima, che declama come in preda a un'ansia latente, mentre sullo sfondo, tra mille rumori sparsi, si eleva un organo solenne.
Il senso di dolore e desolazione che questo brano trasmette si eleva su livelli quasi religiosi nella successiva "Pico". Un basso che pare il suono d'un orologio a pendolo prelude all'entrata di un tema d'organo salmodico, ma soprattutto di una voce che sembra recitare una preghiera, come a decretare il riposo eterno di una civiltà perduta. A dare il tempo (ma forse anche il "senso" del tempo) i soliti ticchettii di orologio, metronomici e imperturbabili. Siamo forse al punto più commovente del disco, sicuramente a quello che ne incarna meglio lo spirito.

"The Cipher" è un altro incubo profondissimo di devastazione psicologica, tra sibili intergalattici e palpitazioni sintetiche, un'altra espressione di terrore latente, uno strumentale di tre minuti dove la melodia scompare nuovamente, lasciando il posto alla solita atmosfera asettica e malata. La lunga processione di "Lake Speed" fa leva sempre sull'organo per esprimere il senso di martirio, accompagnato da una dissonanza intermittente che confonde i piani sonori e che stordisce. A rallentare il tutto, una chitarra svogliata e un basso abulico, insieme per segnare il passo di questa marcia deformata che forse di umano ha già ben poco.
La dissonanza è la vera protagonista della successiva "Scenic Recovery". Lo scopo è sempre quello: stordire. Ma non attraverso il rumore e il ritmo della "vecchia scuola", ma per merito di un delirio sonico lento e angosciante, che porta in questo caso a uno stato quasi ipnotico, grazie alle spire ammalianti del violino e all'inesorabile battito di una drum-machine sporcata da un effetto "low-fi".

Quando si arriva alla conclusiva "Battered", si è sfiniti ma anche terribilmente affascinati dal viaggio, giusto in tempo per apprezzare l'ennesimo capolavoro, degno testamento finale di un disco irripetibile.
Tutto a questo punto sembra svanire ancor di più, avvolto da una nebbia fittissima, come per consegnare il disco al luogo più remoto della nostra mente, dove risiedono le esperienze più latenti. Una chitarra tremolante invade la percezione col suo suono informe, stesso proposito seguito dalla tastiera, che si insinua così delicatamente da non farci quasi avvertirne la comparsa. Un orologio al quarzo fa sentire di tanto in tanto la sua presenza, mentre la voce annega e si dissolve, ormai liquefatta, in questo sterminato gioco di dissolvenze. D'improvviso tutto si interrompe, per far posto a un languido gioco di chitarra-basso-batteria di chiara ispirazione post-rock, che accompagna l'ascoltatore sino al termine del disco.

Un disco del quale, come tutti quelli relativamente recenti, non si è forse ancora ben definito il valore. Indipendentemente comunque da disquisizioni di carattere storico-sociologico, le orecchie hanno decretato già da tempo il loro verdetto. Un verdetto senza tempo.

Recensione di Michele Mininni


Labradford (1996) Labradford

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