Labradford (1996) Labradford
Artist: Labradford
Title: Labradford
Label: Kranky - KRANK 013
Format: CD, Album
Country: US
Released: 1996
Genre: Electronic
Style: Minimal, Ambient
Songs:
1 Phantom Channel Crossing
2 Midrange
3 Pico
4 The Cipher
5 Lake Speed
6 Scenic Recovery
7 Battered
Immaginate
un paesaggio desolato, abitato da fantasmi che si aggirano derelitti.
Immaginate di vedere attorno a voi solo cenere e metallo, frammenti
senz'anima di un'esplosione remota, ma soprattutto dimenticatevi i
colori e pensate in bianco e nero, contrasto ideale per rappresentare
l'alienazione. Bene, a questo punto avrete davanti a voi l'immagine di
ciò che questo disco rappresenta in musica.
I
Labradford, come tutti gli artisti di grande levatura, hanno
metabolizzato generi apparentemente antitetici tra loro, in questo caso
la psichedelia, la musica industriale e quella ambientale, attraverso
l'umore del proprio tempo, ottenendo qualcosa di nuovo e inaspettato. I
suoni industriali della storica scuola inglese di fine anni 70,
cacofonici e martellanti, qui implodono inesorabilmente, svuotati della
loro forza d'impatto, collassando in un rumore lontano e indefinibile.
Il ritmo meccanico scompare, agonizzando sotto forma di flebili e
ovattati brusii metallici. Da questo punto di vista i Labradford
fotografano alla perfezione il nostro tempo. Non più un nemico da
combattere, un riferimento, una linea di condotta, che seppur estrema
rappresentava una "rottura" "contro" qualcosa, una rivolta "verso" un
obiettivo. No, adesso quei punti di riferimento si sono inesorabilmente
persi, e quel movimento oggi è assolutamente inattuale.
La
new wave dei Throbbing Gristle o dei Cabaret Voltaire si era allarmata
per l'avvento della civiltà industriale e ne esprimeva la rivolta
estremizzando il suo malessere, "riportandolo" in musica, attraverso un
estenuante stordimento, provocando fastidio, inquietudine. Oggi ci siamo
"assuefatti" a tutto ciò, ma soprattutto si è "superato" tutto ciò.
L'industria delle ciminiere, dei mostri meccanici, si è trasformata in
microchip quasi invisibili, e per questo più pericolosi perché
subliminali, esattamente come la musica dei Labradford, che è industrial
non sembrandolo affatto: i maniaci delle etichette la catalogherebbero
come "post-industrial".
Gli elementi ambientali che si incontrano
nel disco servono proprio ad anestetizzare l'ascoltatore, essendo
l'ambient il genere della sub-coscienza per antonomasia, nato per non
essere ascoltato, ma "recepito". La psichedelia è invece un elemento
minore, ma ugualmente importante per la sua caratteristica allucinogena.
L'intento d'altra parte è dichiarato già dalla bellissima copertina,
dove quei pilastri di metallo, forse un nastro trasportatore, risultano
sfocati, come l'immagine onirica di un ricordo lontano sul punto di
svanire per far posto alla veglia.
E sono infatti degli
anemici rumori d'acciaio ad aprire il disco, introducendo "Phantom
Channel Crossing". Ciottoli e catene che si trascinano lentamente come
trasportati da un vento cosmico, emesso da una cupa elettronica
analogica. Sinistri cigolii di lamiere riecheggiano nell'aria, creando
un clima snervante, come d'attesa di una tragedia imminente, ideale
colonna sonora per un campo di concentramento.
"Midrange", invece,
si distende su territori armonici decisamente più usuali, ma
soprattutto fa posto alla melodia e al canto, del tutto assenti
nell'incubo precedente. Il pezzo si apre con dei liquidi rintocchi di
chitarra, di chiara matrice psichedelica, sui quali dopo pochi secondi
si distende un languido violino, dalla voce simile a quella del "canto
solista" dei Dirty Three. Ecco poi che compare la voce, una voce
effettata e caldissima, che declama come in preda a un'ansia latente,
mentre sullo sfondo, tra mille rumori sparsi, si eleva un organo
solenne.
Il senso di dolore e desolazione che questo brano
trasmette si eleva su livelli quasi religiosi nella successiva "Pico".
Un basso che pare il suono d'un orologio a pendolo prelude all'entrata
di un tema d'organo salmodico, ma soprattutto di una voce che sembra
recitare una preghiera, come a decretare il riposo eterno di una civiltà
perduta. A dare il tempo (ma forse anche il "senso" del tempo) i soliti
ticchettii di orologio, metronomici e imperturbabili. Siamo forse al
punto più commovente del disco, sicuramente a quello che ne incarna
meglio lo spirito.
"The Cipher" è un altro incubo
profondissimo di devastazione psicologica, tra sibili intergalattici e
palpitazioni sintetiche, un'altra espressione di terrore latente, uno
strumentale di tre minuti dove la melodia scompare nuovamente, lasciando
il posto alla solita atmosfera asettica e malata. La lunga processione
di "Lake Speed" fa leva sempre sull'organo per esprimere il senso di
martirio, accompagnato da una dissonanza intermittente che confonde i
piani sonori e che stordisce. A rallentare il tutto, una chitarra
svogliata e un basso abulico, insieme per segnare il passo di questa
marcia deformata che forse di umano ha già ben poco.
La dissonanza
è la vera protagonista della successiva "Scenic Recovery". Lo scopo è
sempre quello: stordire. Ma non attraverso il rumore e il ritmo della
"vecchia scuola", ma per merito di un delirio sonico lento e
angosciante, che porta in questo caso a uno stato quasi ipnotico, grazie
alle spire ammalianti del violino e all'inesorabile battito di una
drum-machine sporcata da un effetto "low-fi".
Quando si
arriva alla conclusiva "Battered", si è sfiniti ma anche terribilmente
affascinati dal viaggio, giusto in tempo per apprezzare l'ennesimo
capolavoro, degno testamento finale di un disco irripetibile.
Tutto
a questo punto sembra svanire ancor di più, avvolto da una nebbia
fittissima, come per consegnare il disco al luogo più remoto della
nostra mente, dove risiedono le esperienze più latenti. Una chitarra
tremolante invade la percezione col suo suono informe, stesso proposito
seguito dalla tastiera, che si insinua così delicatamente da non farci
quasi avvertirne la comparsa. Un orologio al quarzo fa sentire di tanto
in tanto la sua presenza, mentre la voce annega e si dissolve, ormai
liquefatta, in questo sterminato gioco di dissolvenze. D'improvviso
tutto si interrompe, per far posto a un languido gioco di
chitarra-basso-batteria di chiara ispirazione post-rock, che accompagna
l'ascoltatore sino al termine del disco.
Un disco del
quale, come tutti quelli relativamente recenti, non si è forse ancora
ben definito il valore. Indipendentemente comunque da disquisizioni di
carattere storico-sociologico, le orecchie hanno decretato già da tempo
il loro verdetto. Un verdetto senza tempo.
Recensione di Michele Mininni
Labradford (1996) Labradford
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