The United States of America (1968, Remastered 2004)
Info :
The
United States of America sono stati un gruppo rock sperimentale e
psichedelico, tra i primi gruppi ad unire musica elettronica ai suoni
classici del rock and roll.
Si sono formati nel 1967 da
Joseph Byrd (musica elettronica, clavicembalo elettrico, organo,
calliope, piano, e sintetizzatore Durrett), Dorothy Moskowitz (voce),
Gordon Marron (violino elettrico, modulatore ad anello), Rand Forbes
(basso elettrico fretless) and Craig Woodson (batteria e percussioni)
compagni di college. Ed Bogas (organo, piano e calliope) che all'inizio
si univa saltuariamente al gruppo divenne membro effettivo solo con il
primo ed unico tour del gruppo.
Lo stile del gruppo univa elementi
diversi, dall'avanguardia al rock psichedelico, alla canzone popolare.
Caratteristica peculiare, non c'era un chitarrista, all'epoca scelta
radicale in gruppo rock. Il gruppo suppliva a ciò con l'utilizzo di
tastiere elettroniche, i primi sintetizzatori e un modulatore ad anello.
Il
gruppo pubblicò l'unico album, omonimo, nel 1968 per la CBS,
ripubblicato nel 2004 in edizione speciale con alcuni inediti. Venne
accostato presto a gruppi underground come Velvet Underground o
sperimentali come Frank Zappa. Malgrado le critiche favorevoli le
vendite dei dischi stentarono a decollare soprattutto negli USA. Durante
il tour promozionale si acuirono i contrasti all'interno del gruppo, ci
furono problemi con strumentazione e alcuni membri furono arrestati per
possesso di droga. Il gruppo si sciolse entro la fine dell'anno.
Fonte: wikipedia Band ITA
Fonte: wikipedia Band ENG
Fonte: wikipedia Album
Scheda :
Band : The United States of America
Album : The United States of America
Anno : 1968 (Remastered, 2004)
Etichetta : Sundazed
Numero di catalogo : Sundazed SC11124 Remaster
Registrato nel : 1967 / 68
Genere : Psychedelic Rock / Experimental Rock
Paese : USA
Band :
Joseph Byrd – electronic music, electric harpsichord, organ, calliope, piano, vocals
Dorothy Moskowitz – lead vocals
Gordon Marron – electric violin, ring modulator, vocals (on "Where is Yesterday" and "Stranded in Time")
Rand Forbes – electric bass
Craig Woodson – electric drums, percussion
Additional musicians :
Ed Bogas – occasional organ, piano, calliope
Songs :
01. "The American Metaphysical Circus" (Joseph Byrd) - 4:56
02. "Hard Coming Love" (Byrd, Dorothy Moskowitz) - 4:41
03. "Cloud Song" (Byrd, Moskowitz) - 3:18
04. "The Garden of Earthly Delights" (Byrd, Moskowitz) - 2:39
05. "I Won't Leave My Wooden Wife for You, Sugar" (Byrd, Moskowitz) - 3:51
06. "Where Is Yesterday" (Gordon Marron, Ed Bogas, Moskowitz) - 3:08
07. "Coming Down" (Byrd, Moskowitz) - 2:37
08. "Love Song for the Dead Che" (Byrd) - 3:25
09. "Stranded in Time" (Marron, Bogas) - 1:49
10. "The American Way of Love" (Byrd) - 6:38
A. -Metaphor for an Older Man (Byrd)
B. -California Good time Music (Byrd)
C. -Love Is All (Byrd, Moskowitz, Rand Forbes, Craig Woodson, Marron)
BONUS TRACKS
11. "Osamu's Birthday" (Byrd) - 2:59
12. "No Love to Give" (Moskowitz) - 2:36
13. "I Won't Leave My Wooden Wife for You, Sugar" (alternate version with Moskowitz singing lead) (Byrd, Moskowitz) - 3:45
14. "You Can Never Come Down" (Byrd) - 2:32
15. "Perry Pier" (Moskowitz) - 2:37
16. "Tailor Man" (Moskowitz) - 3:06
17. "Do You Follow Me" (Kenneth Edwards) - 2:34
18. "The American Metaphysical Circus" (demo version) (Byrd) - 4:01
19. "Mouse (The Garden of Earthly Delights)" (demo version) (Byrd, Moskowitz) - 2:39
20. "Heresy (Coming Down)" (demo version) (Byrd, Moskowitz) - 2:32
Trovarsi
a voler viaggiare da Los Angeles a New York all’epoca del rock
underground di fine 60 è un po’ come dire di voler entrare nel Parnaso
di Apollo e delle sue Muse, all’epoca della mitologia greca. Joseph
Byrd, poeta maledetto e incompreso della prima scena psych kentuckyiana,
ha fatto proprio questo. Già provetto suonatore jazz, si porta a New
York, a contatto con i locali del sotterraneo - la fucina del rock nella
sua età dell’oro - a contatto con i musicisti d’avanguardia, e
soprattutto a contatto con il patrocinio benevolo di (guarda un po’)
Andy Warhol. La lezione ricevuta è troppo importante, troppo pregnante,
troppo pervasiva per non essere messa in opera. Con una band e un disco
omonimo, diciamo.
La band sono gli United States Of
America, un po’ amici e compagni di college, un po’ suonatori già rodati
dell’entroterra di Los Angeles: Dorothy Moskowitz alla voce (dal timbro
canoro lunare, ipnotico, avvolgente, forse il trade-union ideale tra
Grace Slick e Nico), Rand Forbes al basso, Gordon Marron al violino
(nonché modulatore ad anello), Craig Woodson alla batteria (nonché
percussioni) e lo stesso Byrd alle tastiere (di vario genere). Il disco,
uscito nel 1968, si proietta fin da subito come una piccola grande
detonazione nell’ambito del rock psichedelico: la sua associazione
avventata, naif - eppure così straordinariamente affascinante - di
musica d’avanguardia con orientalismi a là LaMonte Young, di musica da
camera con musica concreta, è un’autentica rivoluzione, anche se capita e
apprezzata da pochissimi (nemmeno dalla Label discografica, che
praticamente tagliò ogni attività promozionale relativa all’uscita del
disco). Un coacervo epilettico e futuristico di tecnica, composizione,
arrangiamento, gusto artistico sopraffino che farà da battistrada a
tanti e tanti esperimenti -dall’electro (anticiperà in un colpo solo
Monade, Broadcast, Stereolab, Portishead per citare i primi che mi
vengono in mente), al kraut, a certa new wave di estrazione
sperimentale, al dark-gothic, finanche al cosiddetto post-rock degli
anni 90, e insieme può davvero essere considerato un punto di non
ritorno della psichedelia nascente.
Si inizia con una
musique concrete di orchestrine di ottoni e organetti in sovrapposizione
e giustapposizione, che richiama tanto gli esperimenti di Frank Zappa
quanto le malarie cameristico-sinfoniche di Hindemith e Milhaud, sopra
la quale a sua volta si sovrappone a poco a poco, in un sottile ma
inesorabile crescendo di dinamica, la melodia principale. E’ un tema che
sembra quasi provenire dal lato oscuro dell’America a stelle e strisce,
tutta orgoglio nazionale e benessere, sovranità popolare e
patriottismo. E’ una sorta di bruma cupa - come nuvole nere che
dall’orizzonte indefinito si fanno sempre più minacciose - che arriva a
sovrastare la sfavillante e quasi ostentata serenità, un microcosmo
autonomo di perversione e degenerazione, un monito oscuro nel suo tenero
dipanarsi melodico. La voce della Moskowitz si acumina, sfonda la
barriera ultrasonica, l’orchestrazione si fa sempre più intensa e
drammaticamente urlante, fino a quando il tutto svapora in favore di
nuove e ignare orchestrine e bande popolari di ottoni.
Lo
slancio ritmico della seguente “Hard coming love” è degno dei migliori
Doors. L’introduzione strumentale, volutamente (e genialmente)
prolungata per aumentare il senso di tensione rispetto all’entrata in
scena delle bordate nell’etere della Moscowitz (ma dapprima sornione e
pacate), è un trip lisergico di rara bellezza, con tanto di batteria
instancabile e in stato di trance. E’ un brano che sembra continuamente
morire in fulminee catastrofi free-form (ad opera delle genialate
elettroniche di Byrd alla cabina di regia, e ai riverberi infernali del
modulatore ad anello), che si rigenera più viscerale di prima, che
ritorna a sconquassare menti e coscienze.
“Cloud Song” è
una dolce romanza. Velvettiana nell’impostazione, arriva a risultati
musicali totalmente “altri”. Il ricamo violinistico è anche più
atmosferico di quello di John Cale, l’arpa scandisce pizzicati
orientaleggianti, mentre le percussioni sottolineano con arcana
insistenza. E’ una canzone per cuori accesi - in silente preghiera (“How
sweet to be a cloud/ Floating in the blue”)- e cielo variabile, in cui
si parte con sonorità romantiche e si arriva a lambire i tratti della
vignetta sardonica, livida, spiazzante, e in cui anche la voce sembra
smaterializzarsi in un qualcosa di aeriforme. Proto-ambient, forse.
In
“Garden of Earthly Delights” si riprende l’andamento veloce, in
un’atmosfera inquieta e turbata, carica di una tensione inenarrabile
(sovramplificata dal nervoso tribalismo ritmico di sottofondo), forte di
un prodigioso canto da Oracolo lunare. Dove tutto poi degenera in un
tripudio assordante di fasce sonore, di effetti rumoristici al vetriolo e
in un allucinante pigolare cosmico. Si scivola poi, quasi senza
soluzione di continuità, in “I Won’t Leave My Wooden Wife For You,
Sugar”. Un vaudeville relativamente semplice e dal piglio
cabarettistico, ma comunque geniale per l’uso dell’organo (che rimpiazza
efficacemente la chitarra) e di suoni sinistri, un’ombra di
inquietudine onnipresente.
C’è spazio per una breve
marcetta popolare in lontananza, con grancassa e ottoni, che traghetta
in modo stridente verso un terrificante “Agnus Dei” (cantato dalla
Moskowitz e da un coro polifonico gregoriano), sopra una sinistra luce
primordiale. Si innesta una timida concertazione vocale-armonica à-la
Beach Boys, ma sconsolata e tenebrosa. E’ più una messa nera che uno
spensierato inno wilsoniano, e pure squarciata da riverberi
agghiaccianti, da fragori elettrici e orrorifiche corse d’archi. “Coming
Down”, baldanzosa e sardonica, sembra collegarvisi direttamente: è una
veloce filastrocca demoniaca, un duetto voce-violino dalle tinte fosche e
ancora pregno di riverberi provenienti dall’ignoto più oscuro. Ogni
nuovo brano sembra annullare la portata semantica del brano precedente,
anche se legato ad esso per la morte e per la vita, causando una perdita
totale del senso di narrazione, di struttura, di svolgimento. Questo
disco è praticamente una lunga suite, in cui le gaie fanfare fanno da
collante tra episodio e episodio.
In “Love Song for the
Dead Che” le acque si calmano nuovamente, la tempesta nucleare si
placa. Fisarmonica e violino enunciano un tema estatico e intimo,
dall’intenso raccoglimento lirico, ma che, paradossalmente, risulta
essere ancora in linea con le precedenti atmosfere inquiete. E' forse
l’unica vera parvenza di forma-canzone in tutta l’opera, una parentesi
di ricordo e rievocazione di un passato prossimo, ma già malinconico.
L’arrangiamento bonifica il gelo della linea vocale (con contrappunti e
spunti melodici) in un compenetrarsi reciproco: è un disco in cui voce e
arrangiamento si nutrono vicendevolmente, e vivono in perfetta simbiosi
armonica. Non c’è vero e proprio distinguo - e questa è la vera portata
innovatrice del disco - tra armonia e melodia, quanto piuttosto tra
ritmo e non-ritmo, e tra armonia e cacofonia.
“Stranded
in Time” sembra fare il verso all'“Eleanor Rigby” beatlesiana, ma il
tutto viene presto contraddetto da una breve jam di violino, organo e
batteria, dal sapore onirico e visionario. “American Way of Love” è il
capitolo conclusivo, ed è anche uno straordinario collage di episodi
musicali ed eventi sonori dal meticoloso retrogusto estetico
pseudo-zappiano. Si inizia con una struttura call-and-response
dall’andamento roccioso, ma anch’essa inframezzata da parentesi quasi
demenziali, in cui il violino acidificato riveste il ruolo di
protagonista incontrastato (forse il corrispettivo di deformazione
caricaturale e sprezzante del canto di Byrd). Intervengono ancora nuove
vignette, modulazioni di suoni da incubo e intermezzi hard, e intanto si
fanno strada deliranti rievocazioni di episodi ascoltati lungo tutto il
disco, quasi degli attori richiamati in scena in tutta fretta a rendere
ancor più psicotica questa fragorosa, allucinata e mostruosa sarabanda
finale. Il riassunto procede poco per volta, in continui naufragi
apocalittici in ondate di suono, sopra l’andirivieni del motivo
principale e dell’incedere del ritmo di batteria, accecato e quasi
cancellato dalle spaventose folate di suono assoluto, il vero capocomico
di questa passerella schizofrenica. Ritornano finalmente le bande e le
parate cittadine di ottoni e grancassa, le spensierate fanfare
dell’inizio, prima di concludersi sopra dense pennellate di archi sulle
quali vengono fatti esalare - quasi si trattasse di misteriosi gas
luciferini - altri fugaci e confusi episodi di quanto ascoltato in
precedenza.
E’ stato tutto un sogno? Maledetto,
insolito, accattivante. E’ un archetipo di conformazione ciclica, più
che un disco. Un potente canovaccio impressionistico dalla grande
fascinazione sonora, in cui la struttura si aggroviglia e implode su sé
stessa. Un’opera che pone in essere in modo obliquo le contraddizioni
dell’America dell’epoca, contesa - come sappiamo - tra boom del
benessere materiale e pesanti carneficine umane in terra vietnamita. Si
parte dalla musica popolare americana, ma si arriva a risultati che
smentiscono in fieri la sovrastruttura fin nelle sue fondamenta. E’ un
incubo, ma ad occhi aperti, dove splende la luce diurna. E dove più
splende la luce, più si ha mefistofelica malvagità. E’ un sorriso, ma
satanico, sulla vita e sui piccoli mostriciattoli del quotidiano, della
mente umana nel suo vagare indefinito. Non si ritrovano precedenti
artistici di un’opera del genere, forse solo nel “Trittico delle
delizie” di Bosch (cfr.), a cui il disco sembra misteriosamente rendere
omaggio.
Recensione di Michele Saran
The United States of America (1968, Remastered 2004)
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